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Intervista a Sergio Romano

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Intervista a Sergio Romano da Linkiesta

«Dopo la sbornia, il risveglio è amaro. Ed è esattamente quel che sta succedendo in Gran Bretagna». Non si stupisce Sergio Romano, ex ambasciatore, delle ricerche compulsive su Google per capire cosa sia l‘Unione Europea, delle 800mila firme che chiedono di rifare il referendum, di Boris Johnson che dice che non c’è alcuna fretta di abbandonare l’Unione Europea, di Nigel Farage costretto ad ammettere che non ci sarà un extra budget di 350 milioni di euro per la sanità britannica come aveva promesso in campagna elettorale, della Cornovaglia che chiede di poter comunque accedere ai fondi europei cui aveva attinto a piene mani negli anni precedenti: «Questo è il più buffo dei referendum mai organizzati. Hanno posto al popolo un quesito senza rendersi conto delle conseguenze della decisione che stavano prendendo».

C’è chi dice che la responsabilità di Cameron sia quella di aver promosso il referendum, non di averlo perso…
È vero. Le responsabilità maggiori sono sue. Un referendum del genere è populismo, non è democrazia. I trattati internazionali sono argomenti troppo complessi per dire dei sì o dei no. La gente non sa cosa sta andando a votare. E il bello è che a Cameron non gli interessava nulla dell’Europa. Ha creato il caos per risolvere un suo problema personale.

Cioè?
Il suo partito era spaccato in due, l’Ukip erodeva voti a destra: Cameron ha promosso il referendum per rimanere al governo e avere un ruolo politico nel futuro. Risultato? Il suo partito è ancora diviso in due, l’Ukip è risorto dopo la batosta alle ultime elezioni e lui è dovuto andare a casa.

È solo lui il colpevole?
Lui è il principale, ma non il solo.

Chi altri, allora?
Cameron, promuovendo il referendum, ha messo l’Unione Europea in grave imbarazzo, costringendola a offrire alla Gran Bretagna condizioni ancora migliori di quelle precedenti, in caso avesse vinto il Bremain.

In che senso l’Europa è stata costretta?
Non l’avessero fatto, in caso di Brexit sarebbero passati come i responsabili dell’uscita dall’Unione Europea della Gran Bretagna. È stato un errore, a posteriori: dovevamo essere più duri, rischiando di prenderci la colpa. Nessuno se l’è sentita e abbiamo pure noi giocato il gioco di Cameron, perdendo insieme a lui.

E adesso?
Adesso la palla è nelle mani di chi ha a cuore le sorti dell’Unione. Francia e Germania, soprattutto, ma anche noi italiani. Non fosse altro per il fatto che siamo i paesi che più degli altri hanno scommesso su questo disegno.

Cosa vuol dire aver la palla tra le mani?
Vuol dire prendere iniziative che abbiano un contenuto. Non c’è momento migliore per farlo.

Perché?
Perché la Gran Bretagna era sì un paese importante dell’Unione Europea, ma anche quello che si è opposto più degli altri alle cessioni di sovranità. Con loro fuori, molte cose fino adesso considerate impossibili, diventeranno possibili.

Ad esempio?
Ad esempio, nel coordinamento fiscale. Quando si stava costruendo il mercato unico, Mario Monti, allora commissario, mi diceva spesso che gli inglesi erano i suoi migliori alleati. Ma quando cominciò a parlare di coordinamento fiscale, gli alleati diventarono nemici. Ora è fondamentale che vi sia una politica fiscale comune e un ministro che sovrintenda l’economia europea. In questo senso, l’assenza degli inglesi facilita i processi.

E poi?
Dobbiamo occuparci seriamente di immigrazione.

Perché dice così?
Perché è l’origine di tutti i malumori di cui stiamo soffrendo. E sta nutrendo il campo dei nazionalismi populisti. Li dobbiamo lavorare, senza avere l’illusione che vi siano soluzioni miracolistiche.

Ecco: come?
Bisogna creare una frontiera comune. Il grosso errore di Schengen è stato quello di non occuparci di questo problema. Se gli immigrati, quando entrano, possono girare dappertutto, ogni frontiera appartiene a tutti, non solo agli stati nazionali. Di conseguenza, ognuna di quelle frontiere deve avere le medesime guardie di frontiera, i medesimi principi di accoglienza. E invece, finora, ognuno ha fatto quel che voleva. Ricordo ancora, nel 2011, Roberto Maroni che favorisce il viaggio verso la Francia dei profughi tunisini…

Frontiere comuni vuol dire anche esercito europeo?
C’è stato un momento in cui si pensava che l’unità d’europa dovesse partire da un esercito comune. Era un momento particolare: la fine della seconda guerra mondiale, l’inizio della guerra fredda con l’Unione Sovietica. Fu quello il principio su cui si fondò la commissione europea di difesa. Ad affossarla fu la Francia, con il voto congiunto – seppur con motivazioni profondamente diverse – di comunisti e gollisti.

Ci possiamo riprovare?
Ora le condizioni non sono migliori di allora.

Come mai?
Soprattutto, perché non abbiamo una disparità qualitativa militare, tra i membri dell’Unione Europea. Abbiamo una potenza nucleare, la Francia, che non vuole mettere in comune il suo potere. Abbiamo paesi che spendono nelle loro forze armate e altri come l’Italia che non lo fanno. Difficile creare una nuova istituzione paritetica, tra enti che non lo sono. Si rischia di riprodurre un errore. E per di più di farlo quando ci sono altre urgenze.

Una su tutte: che l’esempio britannico contagi gli altri Paesi europei…
Non credo accadrà, in tutta onestà.

Come mai?
Adesso va di moda pensarlo: altri Paesi minacceranno l’uscita e poi andranno all’incasso, strappando condizioni migliori di quelle attuali. Io non ne sono affatto convinto. Quello che vediamo oggi in Gran Bretagna è il risveglio dopo la sbornia nazionalista. I paesi che davvero vogliono imitare la Gran Bretagna ci penseranno due volte, prima di farlo. Dal canto nostro, abbiamo molti più argomenti per contrastarli, oggi.

Quindi che succederà, allora?
Non lo sappiamo. Certo, non me la sentirei di escludere l’ipotesi che l’Europa finisca per procedere a due velocità, costruendo la propria unione politica attorno al nucleo stretto dei Paesi fondatori, forse ad esclusione della sola Olanda.

Tagliando fuori l’est, insomma…
L’allargamento a est è figlio di un’idea di John Major. Più si allargava l’Europa, meno sarebbe stato possibile integrarla a livello federale. La Gran Bretagna, di fatto, è entrata in Europa per impedirci di fare l’Europa. Adesso che loro non ci sono più, ci sono anche le condizioni per ripensare l’allargamento. Alcuni paesi dell’est come l’Ungheria, peraltro, giustificano il ripensamento, chiedendoci cose vanno contro i principi.

La cosa incredibile è che di questa “prima Europa potrebbero far parte anche la Scozia. E pure, incredibile a dirsi, l’Irlanda unita, se è vero che la Brexit metterà in moto pure un referendum per la separazione dell’Ulster dal Regno Unito…
La situazione irlandese è tanto spinosa quanto paradossale. Dopo essersi ammazzati a vicenda per decenni, potrebbero sposarsi per l’unica delle ragioni che non avevano previsto. Mentre riguardo alla Scozia, confesso che sono diviso tra due sentimenti opposti.

Cioè?
Mi piacerebbe che se ne andassero dal Regno Unito. Sarebbe una lezione della Storia, un altro modo per dire all’Inghilterra che ha sbagliato tutto. L’Unione Europea però non è nata per spaccare gli Stati. Il giorno in cui se ne va la Scozia, come fa un leader catalano ad accontentarsi di meno?

Un altro effetto paradossale della Brexit è che finirà per mettere in crisi gli stati nazionali?
L’Unione Europea doveva essere la soluzione razionale per la promozione degli autonomismi, la loro casa comune. Oggi c’è il rischio che diventi quella irrazionale e disordinata. L’ennesimo effetto del “capolavoro” di David Cameron.

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